Perché alcuni paesi arabi odiano Israele?
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Le origini storiche del conflitto che preoccupa il mondo La guerra dei 6 giorni (1967) ha cambiato il Medio oriente
Non passa giorno che le tensioni fra Israele e molti paesi arabi non siano protagonisti delle cronache, con rischio continuo di degenerazione globale del conflitto. Ma perché accade tutto questo?
La storia comincia con una terra e con chi ci abitava, la Palestina. Prima che diventasse questione da titoli sui giornali e libri di storia, era un posto dove la gente viveva davvero. Ci vivevano arabi, musulmani e cristiani. E anche alcuni ebrei, da secoli. Poi, nel 1947, le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 181, quella che proponeva la spartizione della Palestina in due Stati: uno arabo e uno ebraico.
I britannici, che avevano il mandato sulla regione dal 1917, se ne sarebbero andati. Gli ebrei accettarono il piano, gli arabi no.
La decisione dell'ONU, con analisi postuma, ha finito per penalizzare anche il popolo di Israele, sottoponendolo ad odio, attentati e conflitti, pressoché continui fino ad oggi.
Gli arabi infatti lo considerarono un’imposizione, con carta e timbri. Quando il 14 maggio 1948 venne proclamato lo Stato di Israele, gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq attaccarono. Ma Israele resistette in modo inatteso, con un miracolo militare e conquistò anche più territori di quelli assegnati dal piano ONU.
Più di 700.000 palestinesi fuggirono o vennero espulsi durante la guerra. Nakba (catastrofe), la chiamano ancora oggi.
C'è quindi una questione di dignità, che non si cancella facilmente. Non riguarda solo chi ha perso una casa, ma l’intero mondo arabo che, per decenni, ha visto quel gesto come un’umiliazione. La guerra dei 6 giorni del 1967, poi ha aggravato la situazione. Israele entrò in conflitto con Egitto, Siria e Giordania. E in sei giorni conquistò la Cisgiordania, Gaza, il Golan e il Sinai. Gerusalemme Est venne annessa. I territori occupati rimasero tali, salvo il Sinai, restituito all’Egitto con gli accordi di Camp David del 1978. Ma per molti arabi fu un’altra ferita.

Il conflitto israelo-palestinese ha poi finito per diventare uno specchio. Ogni volta che in Palestina si spara, molti arabi si sentono toccati direttamente. Non per religione, almeno non solo. Ma per una forma di solidarietà che è anche politica, identitaria, culturale.
Israele, per molti governi arabi, è visto come il simbolo dell’Occidente che mette piede troppo in profondità. Un alleato degli Stati Uniti, con finanziamenti, armi, tecnologia.

La sfida che si è tramandata nei decenni ed ha portato a conflitti ciclici: la guerra dello Yom Kippur nel 1973, le intifade palestinesi (1987 e 2000), l'attentato del 7 ottobre 2023 con il rapimento ed uccisione di migliaia di Israeliani, le successive e drammatiche operazioni militari di Israele su Gaza, con migliaia di civili uccisi. Accordi firmati e poi rimangiati, uno schema che si ripete.
Bisogna tuttavia precisare che i paesi arabi non sono un blocco unico. Alcuni hanno normalizzato i rapporti con Israele (Egitto nel 1979, Giordania nel 1994, Emirati Arabi e Bahrain con gli Accordi di Abramo del 2020). Ma l’ostilità popolare per altri resta.

La religione è spesso tirata dentro come giustificazione, come cornice, come linguaggio utile a infiammare. Ma sotto, a bruciare davvero, c’è la politica.

Ecco che odiare Israele, per certi giovani in alcune zone del mondo arabo (e non solo), è diventato quasi un gesto riflesso. Un modo per appartenere, per stare dalla parte che si ritiene “giusta”, per sentirsi parte di qualcosa.

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Tag: Guerre  Israele  Religione  









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